La differenza tra la felicità (o infelicità) degli esseri umani dipende da una combinazione di fattori, che si intrecciano in modi complessi. Provo a schematizzarli:
Risorse materiali: povertà, ricchezza, sicurezza economica, possibilità di accedere a cure e a opportunità.
Ambiente sociale: famiglia, relazioni affettive, comunità, senso di appartenenza.
Eventi della vita: traumi, malattie, perdite, successi.
Temperamento e genetica: alcune persone hanno una maggiore tendenza biologica all’ansia, alla depressione o, al contrario, all’ottimismo.
Capacità di adattamento: resilienza, elasticità mentale, abilità di trovare senso anche nelle difficoltà.
Visione del mondo: alcuni interpretano gli stessi fatti come catastrofici, altri come sfide o occasioni.
Valori e aspettative: in una società che enfatizza il successo economico, chi non lo raggiunge può sentirsi infelice, anche se avrebbe potuto sentirsi sereno in un altro contesto culturale.
Narrazioni dominanti: religioni, filosofie, ideologie che danno (o tolgono) significato all’esistenza.
Confronto sociale: la felicità relativa (sentirsi meglio o peggio rispetto agli altri) pesa spesso più della felicità assoluta.
Grado di consapevolezza: alcuni vivono immersi nel flusso senza porsi troppe domande; altri riflettono eccessivamente e soffrono per la propria stessa lucidità.
Capacità di vivere il presente: la tendenza a rimuginare sul passato o a preoccuparsi del futuro può ridurre la felicità.
La contingenza pura: nascere in un certo luogo, incontrare certe persone, imbattersi in eventi casuali.
Un piccolo episodio può cambiare radicalmente la traiettoria di una vita, in meglio o in peggio.
In sintesi, la felicità non è un “capitale distribuito in modo equo” ma un risultato di biologia, storia personale, cultura e contingenza.
C’è chi sostiene che la differenza maggiore la faccia come interpretiamo ciò che ci accade più che ciò che realmente ci accade.